Sinossi:
“Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale è difforme dal vero” A. Manzoni
A conclusione dei Promessi Sposi non compare la parola ‘fine’, spostata invece al termine della Storia della Colonna infame, l’appendice al romanzo. Il Manzoni ci mette così in guardia da una frettolosa soddisfazione per il felice esito della vicenda di Renzo e Lucia. Nella realtà le cose sono andate diversamente. Se il romanzo è la storia di un desiderio di casa coronato da successo, nell’appendice è ricostruita la distruzione di una famiglia.
La nostra scena è un salotto che ospita un Professore, che sembra conoscere la natura del potere, e una Donna, che sembra prendersi cura di lui. C’è un clima spossato, come al rientro da una serata interminabile in una calda sera d’estate: la notte in cui la Divina Provvidenza gioca a carte con la Catastrofe.
Per tutto il tempo che è loro concesso – il tempo dello spettacolo – il Professore recita il Manzoni con un’urgenza misteriosa, come se temesse che le parole potessero essere dimenticate, e morire, e il suo compito fosse di salvarle, preservando la memoria di due vittime innocenti. Uno scongiuro per contrastare l’eventualità che si ripresenti, in futuro, lo schema perverso del capro espiatorio. Proprio come la febbrile scrittura del Manzoni, che non riesce a darsi pace di fronte alla facilità con la quale i giudici, allora, cedettero alle pressioni dell’opinione pubblica.
La Storia della Colonna infame è una ricostruzione del famoso processo agli untori che avvenne in occasione della terribile peste del 1630 narrata nel romanzo. I fatti sono noti: la medicina del Seicento ignorava la causa del contagio e, come accade quando ci si trova di fronte a calamità insormontabili, nell’impossibilità di governare il caos che ne consegue e di spezzare la sequela ininterrotta delle sofferenze e delle morti, semplicemente si cerca un colpevole. Nel momento di crisi, spesso la società va alla spasmodica ricerca di un capro espiatorio che sconti tutto il Male dilagante e che dia agli uomini l’illusione irrazionale di placare l’ira degli dei. Ed ecco spuntare la diceria che la peste sia propagata a causa di un non ben definito «onto», un unguento di cui alcuni individui, per loro loschi e incomprensibili scopi, vanno cospargendo case, strade, oggetti, vestiario etc. La peste del 1630 sterminò un terzo della popolazione di Milano; le autorità cittadine, non riuscendo a gestire la situazione né gli umori delle masse, alimentarono questa diceria.
Il processo si svolse nell’estate del 1630. Decretò sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza (un commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (un barbiere), sia l’abbattimento dell’abitazione di quest’ultimo. Come monito, sulle macerie dell’edificio raso al suolo, fu eretta la “Colonna infame” che dà il titolo all’opera. La colonna rimase in piedi fino al 1778, quando anche il monumento, ormai divenuto una testimonianza d’infamia non più a carico dei condannati, bensì dei magistrati che avevano commesso una palese ingiustizia, fu finalmente abbattuto.