Sinossi:
Tutto è nato da un’idea degli amici Allevi e Doninelli, quella di portare in scena la scrittura “giornalistica” di Giovanni Testori. In quell’idea risiede il senso primo di questa “lettura scenica”. Che è uno sguardo al Testori che alla fine degli anni ’70 prende il posto che era stato di Pasolini sulla terza pagina del Corriere della Sera. Si sente dire in giro: intellettuali come quelli non ce ne sono più, capaci di dare scandalo con un articolo. Coloro che sentenziano così sono gli ignavi del nostro tempo, il loro modo pigro e colpevole di rifugiarsi nella zuccherosa nostalgia impedisce di vedere che in questi trent’anni sono cambiati radicalmente i termini della questione: le parole “intellettuale”, “scandalo”, “terza pagina” non hanno più lo stesso senso. Impedisce a loro di vedere come si possa continuare (con le armi e nel contesto radicalmente trasformato dell’oggi) a non rassegnarsi al moloch dell’orribile indifferenza e dell’abitudine, all’ingiustizia e alla violenza che regnano sovrane nel mondo. Come si possa continuare a cantare “la maestà della vita”. Giovanni Testori era questo, quello che noi dobbiamo continuare a essere, senza alibi di comodo e senza lamentele da salotto: un combattente deciso a testimoniare la speranza, la speranza-bambina: che un altro mondo è possibile. Con furia e con pazienza, la quale, diceva Testori, “è virtù primariamente attiva”, che sa porre la coscienza “in uno stato di perpetua allerta”. Siamo capaci di tenere ben saldo in pugno il testimone che ci consegnano queste pagine dolenti, profetiche, scritte da Testori per l’Italia di quegli anni?
Abbiamo scelto tre articoli legati da un filo preciso: la violenza sulle donne. Scritti tra il 1979 e l’80, i pezzi provano a far luce sull’oscura malìa che incantena il “maschio” alla sua lingua prevaricatrice: l’omicidio di una bambina, un matricidio, e infine la richiesta che Testori fa allo Stato italiano di una legge che difenda le donne dalle violenze. L’analogia con i nostri tempi oscuri fa rabbrividire: segno di quanto sia “immobile” il nostro Paese, in questo come in altri settori della vita sociale. E qui cediamo il passo a Giovanni Testori, che ha scritto queste parole allora perché risuonassero ancora oggi nelle nostre orecchie: “Non vorremmo che, come va succedendo per altre vergogne e per altri delitti, a furia di parlarne, scriverne e discuterne, senza mai assumere la responsabilità di un gesto, si finisse per diminuirne la gravità, l’irreligiosa e disumana vergogna; si finisse, insomma, per abituare l’uomo a ciò che non è umano. L’abitudine a tutto è uno dei rischi più grandi che l’uomo sta correndo; ad esso sta inducendolo la spinta negativa che vuol ridurlo a “cosa”. Ora il punto d’arrivo di questo rischio non potrà essere una nuova coscienza, ma il buio e la notte che s’aprono sulla coscienza eliminata o distrutta”.